Emmanuel Carrère non è un autore per tutti i lettori, così come non lo sono Philip Roth o Joyce Carol Oates o decine di altri grandissimi scrittori.
Carrère o si ama o non si apprezza, fino quasi a non tollerarne la prosa. O si legge con venerazione, concentrandosi su ogni singola parola, o si sorvola con fastidio.
Io, ovviamente, faccio parte della schiera dei lettori che considerano Limonov un capolavoro, che sono rimasti trafitti dalla lucida schiettezza di A Calais, che non vedono l’ora di leggere L’avversario e Vite che non sono la mia.
La riedizione di Un romanzo russo, uscita recentemente per Adelphi, ha confermato questa mia venerazione per il Carrère autore di reportage, facendomi scoprire anche un suo lato più intimo e umano.
Un romanzo russo
Un romanzo russo è un memoir che racchiude storie concentriche, vissute dall’autore nel corso di due anni. Una scatola cinese o meglio ancora – vista l’ambientazione di buona parte della storia – una matrioska.
Ciò che dà il via all’autofiction dello scrittore francese è il ritrovamento in Russia di un prigioniero ungherese, senza nome e senza memoria, trattenuto in un manicomio dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Una detenzione che ormai è divenuta uno stato vitale e che, interrotta dopo più di cinquant’anni, mette in crisi il soldato.
Per approfondire e raccontare questa storia apparentemente distante, Carrère intraprende un viaggio verso un piccolo paese russo, Kotel’nič; un’esplorazione che diventa una necessaria scintilla catartica.
Anche io, in un certo senso, sono lì. Ci sono stato per tutta la vita. Per descrivere la mia condizione ho sempre fatto ricorso a storie di questo tipo. Le ho raccontate a me stesso, da bambino, poi le ho raccontate agli altri. Le ho lette nei libri, poi ho cominciato a scrivere libri. E per molto tempo mi è piaciuto. Ero felice di quella sofferenza che apparteneva soltanto a me e faceva di me uno scrittore. Oggi non voglio più saperne. Non voglio più sentirmi prigioniero di un copione triste e immutabile, né ritrovarmi, quale che sia il punto di partenza, a intessere storie di follia, gelo, prigionia, a progettare la trappola in cui presto o tardi cadrò.
La volontà di Carrère di liberarsi dai conflitti interiori chiama in causa le radici familiari, partendo dalla ricostruzione della storia del nonno materno, di origini russe ma vissuto in Francia, mai veramente integrato e diventato, ai tempi della guerra, un collaborazionista di nazisti e fascisti.
In genere chi occupa l’ultimo gradino della scala sociale ed è umiliato da tutti è ben lieto di trovare qualcun altro ancora più in basso di lui e umiliarlo a sua volta.
Carrère è un egotico narcisista, inutile negarlo. A tratti, però, la sua voglia di sconfiggere i tormenti interiori, così tipici degli artisti, appare sincera, così come appare reale l’impegno preso per ricostruire le proprie origini, approfondendo lo studio della lingua russa e muovendosi verso nuovi viaggi e nuove esperienze.
Non frequento molto il mondo esterno, la vita reale, e passo la maggior parte del tempo nel mio mondo interiore, che mi ha stancato, e nel quale mi sento prigioniero. Non sogno altro che di lasciare questa prigione, ma non ci riesco. Perché? Perché ho paura, e anche – cosa che mi costa un po’ ammettere – perché in fondo mi piace.
Mentre lo scrittore cerca una via di fuga dall’inquietudine della propria essenza artistica, l’uomo cerca conforto nell’amore passionale e sincero – per quanto possa esserlo quello provato da chi si mette al centro dell’universo – verso la fidanzata Sophie.
Convinto di renderla felice, le dedicherà un lungo racconto erotico dalle pagine del quotidiano Le Monde, che però diverrà l’epitaffio scritto sulla tomba della loro relazione, uccisa dal tradimento e dalla gelosia.
Il linguaggio crudo, l’estrema lucidità d’azione, l’arrovellarsi di fragili pensieri ben più che umani, rendono Un romanzo russo un diario realistico e non sempre facile da digerire, scritto con maestria da uno dei più vanesi, magnetici ed efficaci autori europei di autofiction.
Mi piace che la letteratura sia efficace, mi piacerebbe, idealmente, che fosse performativa, nel senso in cui i linguisti definiscono performativo un enunciato, come nel classico esempio della frase «dichiaro guerra»: nel momento stesso in cui la si pronuncia, la guerra viene di fatto dichiarata.
Si arriva in fondo alle quasi trecento pagine conquistati dall’uso delle parole, con un amaro retrogusto in bocca e la sensazione di aver perso l’incanto riservato all’amore.
Eppure, da quelle pagine è impossibile staccarsi, perché la penna di Carrère è ipnotica e travolgente, come i sogni, come gli incubi, come il vedersi riflessi per la prima volta allo specchio.
un libro per chi: ha già apprezzato la letteratura di Carrère e vuole ora approfondire la conoscenza dell’autore e dell’uomo
autore: Emmanuel Carrére
titolo: Un romanzo russo
traduzione: Lorenza Di Lella e Maria Laura Vanorio
editore: Adelphi
pagg. 283
€ 19
Libro bellissimo.. Umano.Svela il Carrere vero con pregi e difetti e ce lo fa amare e stimare con piu intima participatione e sincero affetto.
Verissimo.
Soprattutto nel rapporto con la madre, ma anche con la compagna, scopriamo tutta la fragilità di un uomo che spesso s’è nascosto dietro il suo grande ego.
Condivido in pieno!Elena hai fatto centro.Analisi sintetica,perfetta!
OPTIME!!!Mi associo.Piu conosci Carrerè e più lo apprezzi e lo ami.