Se questo libro non mi fosse stato direttamente messo tra le mani, sicuramente, trovandolo sugli scaffali di una libreria, sarei passata oltre pensando “No, non è il mio genere!”.
E avrei fatto davvero molto male.
Se Dio fosse una donna di Leon De Winter è un romanzo terapeutico e risolutivo – un vero e proprio specchio della vita – scritto magistralmente e pregno di spirito ebraico, acuto, sarcastico e sagace.
Se Dio fosse una donna
Il protagonista è Max Breslauer, ebreo di un quintale, orfano da poco di un padre decisamente ingombrante e ora a capo della SuperTex, l’azienda di abbigliamento low cost (e low quality) messa in piedi dal pragmatico genitore sopravvissuto all’Olocausto.
Fin dalle prime pagine è evidente il disagio che quest’omone massiccio prova nei confronti della propria esistenza e della posizione che ricopre. Max ha atteggiamenti arroganti e scorbutici, si fa volere male da chiunque, incapace di mettere da parte saccenza e aggressività, che chiaramente nascondono una storia personale tutta da scoprire.
È grazie a un evento scatenante improvviso, che coincide con le pagine più esilaranti del romanzo, che Max prende una decisione importantissima: richiamare la psicoterapeuta che lo aveva in cura fino a qualche mese prima, obbligandola a riceverlo per un’improvvisa seduta lunga un giorno.
Un giorno necessario a sciogliere i nodi di una vita lunga trentasei anni, molti dei quali trascorsi all’ombra di quel padre affettuoso a modo suo, autoritario e sprezzante ma anche ferito e infantile, capace di sciorinare snervanti proverbi, uno dietro l’altro.
Era un uomo di costituzione robusta, non grasso come me, ma tarchiato, con le braccia e il petto coperti di peli. Aveva il fisico di un facchino, di uno shlepper, avrebbe detto lui. Ma nel suo viso virile di adulto si intuiva quello del ragazzino di tredici anni che doveva essere stato a Belzec. Aveva occhi di bambino che guardavano il mondo senza saggezza e senza visiera protettiva, meravigliati, sorpresi, sbalorditi, felici. Quando rientrava tardi dal lavoro e mia madre gli serviva la cena in cucina, Boy e io rimanevamo seduti a tavola con lui e la mamma, e lo guardavamo pescare nel piatto colmo e riempirsi la bocca, raggiante di gioia. Quando mangiava indossava soltanto una canottiera bianca, dalla quale spuntavano i peli ricci e folti del suo petto di orso. Per noi bambini le sue spalle potevano sollevare qualsiasi peso e fissavamo il tatuaggio che si era fatto fare a Marsiglia nella preistoria, una stella di Davide sotto due spade incrociate, un’impossibile combinazione di simbologia ebraica e cristiana, ma all’epoca questo ancora non lo sapevo. Non riuscivo a immaginare che potesse essere stato bambino in un campo di concentramento. Ne parlava di rado. Io non gli ho mai chiesto nulla e quello che so degli anni della sua infanzia a Lemberg l’ho scoperto in gran parte all’Istituto regio per la documentazione storica della guerra. Ma era l’altro tatuaggio, quello sull’avambraccio, a raccontare in quei giorni la storia misteriosa.
Durante la seduta di psicanalisi, la Dottoressa Jensen con i suoi silenzi e gli appena accennati assensi, facilita lo scardinarsi delle numerose porte dietro cui Max ha nascosto la difficoltà di affrontare la propria identità di ebreo non osservante, ma anche l’incapacità di relazionarsi con famiglia e sentimenti (il fratello Boy e l’ex fidanzata Esther), nonché quel lungo tentativo di ribellarsi al padre, miseramente fallito. Situazioni sospese, che per anni hanno navigato in quel fiume che oggi diventa un monologo infinito ma terapeutico.
Quando iniziai a studiare giurisprudenza, desideravo diventare uno di quegli avvocati che assistono gratuitamente poveri ed emarginati, che, con un vecchio maglione, i capelli arruffati e la barba lunga, si mettono a loro disposizione due pomeriggi alla settimana. Alla fine dell’università volevo diventare socio di un grande studio legale, dove, in una stanza immacolata seduto, a una scrivania di legno lucido, con un abito di Corneliani, avrei concluso affari con le multinazionali a fronte di un congruo compenso. Finii alla Euro Textiel International, guidata da un buzzurro in abiti costosi appariscenti, che compensava la povertà e la fame della sua giovinezza con una predilezione per l’eccesso.
Come sempre accade, è con l’accettazione che si riesce ad andare oltre i propri limiti e le proprie paure.
Riuscirà Max, dopo aver raccontato tutte le ferite che lo hanno costretto a indossare armature di grasso e ira, a trovare il senso della propria vita?
Si scoprirà solo leggendo questo romanzo dai dialoghi vivaci e ricchi di sarcasmo.
Interessante e per lettori attenti.
un libro per chi: ama l’umorismo ebraico e cerca nei personaggi un profondo spessore psicologico.
autore: Leon De Winter
titolo: Se Dio fosse una donna – SuperTex
traduzione: Elisabetta Svaluto Moreolo
editore: Marcos y Marcos
pagg. 267
€ 18