C’è un non so che di ipnotico in Perduti nei Quartieri Spagnoli, primo romanzo dell’americana Heddi Goodrich, pubblicato da Giunti.
Qualcosa di così magnetico da far perdonare la ridondanza delle 459 pagine che avrebbero potuto, mantenendo inalterata l’intensità della trama, essere almeno cento in meno.
Un malia certamente corroborata dall’utilizzo di una lingua curata ed efficace, che risulta ancor più sorprendente se si pensa che è stata scritta dall’autrice, oggi residente in Nuova Zelanda, senza ricorrere ad alcuna successiva traduzione.
Perduti nei quartieri spagnoli
Heddi è nata negli Stati Uniti ma giovanissima, a soli sedici anni, è arrivata in Italia per uno scambio culturale.
Da quel momento, sul finire degli anni Ottanta, nel suo cuore s’è insinuata Napoli, la più contraddittoria delle città, quella che più di ogni altra è croce e delizia, che sa rendersi irresistibile e allo stesso tempo respingente.
Napoli non la capivo, non veramente. Mi mancava una visione d’insieme, un inquadramento più ampio, una vera mappa. In questo senso, Napoli non era un po’ come i Quartieri stessi? Soltanto in apparenza facile da districare, ma in realtà dotata di una logica misteriosa che la rendeva una matassa impossibile da sbrogliare. La mia lacunosa conoscenza della mia città adottiva era la prova irrefutabile che non sarei mai diventata come Luca, saggia e a mio agio a Napoli. Perché nonostante gli anni trascorsi là, nonostante il liceo e le escursioni, nonostante la passione che ci avevo riversato e la voglia di sentirmi trasportata, perfino annullata, qualcosa di importante mi sfuggiva. L’amore non bastava.
Dopo aver trascorso i primi anni a casa di Mamma Rita, la signora che l’ha accolta come una figlia, Heddi sceglie di vivere con una vivace combriccola di studenti, coltivando il suo amore per la città, per l’Italia e per la lingua che ormai le appartiene. Le giornate scorrono tra gli impegni universitari e l’affetto per il saggio amico del cuore Luca, per la generosa e frivola Sonia, per gli amici caciaroni Tonino, Angelo e Davide, e pure per un misterioso barbone tedesco.
L’incontro con l’insofferente Pietro segna l’inizio di un amore appassionato e fin troppo assolutistico, che si rivelerà presto ben diverso dai sogni e che dovrà scontrarsi con l’aspra realtà delle ancestrali tradizioni familiari del sud.
Ci fu l’ennesimo sciopero dei netturbini. Le buste accumulate furono presto sbudellate, spappolando sull’acciottolato tutti gli intimi segreti dei nostri vicini di casa. Assorbenti, ossa di pollo, bollette scadute. La puzza era invadente. I vicoli dei Quartieri erano congestionati dalla monnezza, le strade del centro storico erano congestionate dal traffico. I semafori erano spesso rotti, ma anche quando funzionavano la gente passava sul rosso lo stesso. Era come se Napoli sputasse in faccia ai miei studi semiologici, come se avesse afferrato ancora prima di Peirce e de Saussure, magari già dai tempi antichi, che nelle regole del gioco c’era un’arbitrarietà di fondo, e perciò non aveva alcun rispetto.
La datata, emotiva e inconcludente storia d’amore tra Heddi e Pietro – che si mescola a uno scambio epistolare più recente, utile ad aggiungere dettagli al destino dei due innamorati – rivela uno stato di luminosa grazia in tutte quelle pagine in cui protagonista assoluta è la città.
Correvo qua e là carica di energia impaziente, soprattutto nel centro storico, dove alloggiava la stragrande maggioranza di universitari – spesso in brutte camere condivise e a prezzi gonfiati. Mi sentivo a mio agio là. In quella zona, il forte elemento fuori sede, nonché la presenza di vucumprà, attenuava l’elemento napoletano. Per di più, i suoi percorsi ingarbugliati avevano un antidoto immediato – Spaccanapoli, il decumano inferiore che spezzava l’antica Neapolis da est a ovest, da un sole all’altro, una linea retta e profonda come quella di un bisturi, incisa con amore freddo da una mano abile, senza esitazioni, senza deviazioni. Tutti i vicoletti intorno all’università, tra i più stretti e bui di tutta la città, prima o poi vi sfociavano, e così la claustrofobia finiva là, in quella strada che si apriva quasi come fosse un panorama. Ma non era una vista del golfo o dei castelli e neanche del cielo. Era uno scorcio che penetrava a perdita d’occhio il cuore di Napoli, eppure era vertiginoso Come un grattacielo. Faceva venire i capogiri a guardare dentro Spaccanapoli, perché potevi scrutarla quanto volevi tu, fino a sfocare gli occhi, eppure non vedevi mai dove finiva. La fine, se c’era, sfuggiva sempre, si confondeva tra le ombre e si nascondeva dietro i panni stesi, i motorini, le moltitudini di persone.
Tra profonde riflessioni sul senso di appartenenza alla terra da cui proveniamo e prese d’atto della difficoltà di cambiare la propria natura, qualunque essa sia, Perduti nei Quartieri Spagnoli non edulcora e non sbeffeggia, né Napoli né i personaggi che ruotano attorno alla protagonista, mantenendo uno sguardo lucido ma carezzevole sulle debolezze degli uomini e sulla fragilità di una città che ha scavato sotto se stessa per elevarsi verso il cielo.
un libro per chi: sente la mancanza di Napoli, anche senza averla mai visitata
autore: Heddi Goodrich
titolo: Perduti nei quartieri spagnoli
editore: Giunti
pagg. 459
€ 19