Scrivere di sé nella narrativa contemporanea è spesso sintomo di sfrenato edonismo, ma se le parole si scelgono con cura e si adoperano per cucire gli strappi e dare ancora voce a chi non è più nel presente, allora siamo di fronte a un generoso atto d’amore assoluto e universale come quello di prendersi cura dei ricordi che ci appartengono, condividendoli senza vergogna.
Questo è ciò che riesce a fare magistralmente Arianna Montanari con il memoir Parole nascoste, esordio appena uscito per Mondadori.
Parole nascoste
È un’impresa non facile raccontare un padre tanto imperfetto quanto vero.
Un padre malinconico che ha vissuto in punta di piedi, muovendosi sfumato e lento in un mondo faticoso e troppo grande e pesante per un’anima fragile in un corpo minuto.
Roberto avrebbe voluto scrivere per vivere.
Avrebbe voluto usare le parole, talvolta come lente d’ingrandimento, molto più spesso come scudo; avrebbe voluto provare davvero a essere sé stesso, assecondando un’indole non certo solare, riflessiva, a tratti scontrosa, ma anche capace di riflettere la luce e illuminare, di spargere inaspettato calore sulle persone amate.
E Roberto ama Arianna, la sua bambina timida e intelligente, piccolo satellite in un universo familiare complesso, sempre a rischio di essere inghiottito da pericolosi buchi neri.
Anni dopo, è Arianna che, complice il lockdown del 2020, mette da parte le scuse diventate armatura e prende in mano le agende e i taccuini del padre, iniziando a tracciare con le parole il ritratto di un uomo infelice e malato, consumato dall’alcolismo e scomparso per un tumore che, chissà, avrebbe forse potuto essere arginato, se non avesse trovato terreno fertile in una salute già compromessa dal male di vivere.
Quando mio padre morì non sapevo, nessuno me l’aveva detto, che dormire sarebbe stato impossibile. Nel mondo non c’erano più particelle di anidride carbonica soffiate via dal suo respiro e io mi ero uttata, sfinita, sul divano di quella che da poche ore era diventata casa di mia madre – com’è difficile passare da un plurale che vive incarnato sottopelle a un singolare che indica un genitore solo. Quanta sorveglianza richiede cominciare a parlare di una persona all’imperfetto, e com’è penoso lo sguardo che ti senti addosso quando ancora ti confondi e le parole rimangono per un attimo indietro rispetto alla realtà, quando la vaga speranza di un tempo presente si infrange contro l’irrefutabile verità di una assenza.
Arianna racimola ricordi, scandaglia la vita del suo papà, intervista chi c’era, affronta il passato con l’esperienza di un’adulta che talvolta si mescola all’innocente stupore ancora intatto dei suoi occhi bambini.
Non si tira indietro mai, nemmeno quando il dolore si fa di nuovo vivo e pungente, nemmeno quando guardare verso il passato significa prendere atto, ancora una volta, di una verità sconsolante: che siamo tutti fatti di ciò che abbiamo vissuto, di ciò che ci è stato insegnato; che tutti indossiamo strati su strati di dolori e giudizi, di gioie e delusioni, di passioni e malumori.
Come Roberto che, figlio di un uomo tutto d’un pezzo e poco incline ai sogni e alle attitudini, si è sentito sempre criticato e incompreso, costretto a dividersi tra l’innocenza dei desideri e il pragmatismo della realtà.
Un uomo che ha amato come ha potuto, posseduto da un demone che difficilmente lascia spazio e respiro, che divora il meglio e lascia briciole di rabbia; una furia che non si spegne mai, pronta a esplodere in un attimo, a travolgere un’Arianna bambina e ragazza, ancora incapace di capire che no, non è colpa sua, che non servirà a nulla assecondare ed essere perfetta, così come non servirà ribellarsi, essere il contrario di tutto, evitare il confronto cercando lo scontro.
Quello che mi ha insegnato mio padre è che ci sono delle persone che come luogo naturale hanno la malinconia, che guardano giù nell’abisso e per un po’ riescono anche a salvare quello che abisso non è, ma poi non ce la fanno più. Esseri delicati che di fronte alla vita preferiscono soccombere, dimenticare, andarsene via, cos’è tutto questo rumore, lasciatemi in pace una buona volta, almeno adesso, almeno adesso che muoio non ditemi che cosa devo fare, non rompetemi i coglioni, almeno adesso.
Che non sono sempre io il centro, che devo mettermi da parte, a volte, e ascoltare.
Parrà pura retorica sottolinearlo ma c’è una forza mastodontica in Parole nascoste ed è ciò che ci si aspetta, non dandola certo per scontata, dallo sguardo attento e amorevole di una figlia che ha scrutato a fondo sé stessa prima di alzare gli occhi sul padre e vederlo come uomo, nudo, mortale, fatto di carne e anima.
Arianna Montanari scrive con una sensibilità rara e in questa sua storia personale – che s’intreccia con le vie di Milano e dell’Emilia Romagna, con la nostalgia dei tempi andati per tutti – riesce generosamente a tracciare sentieri che appartengono a molti, invitandoci a percorrerli accanto a lei, senza timore di ferirci, arrabbiarci, spaventarci, commuoverci.
Da leggere.
un libro per chi: nei memoir cerca sempre un po’ di sé
autrice: Arianna Montanari
titolo: Parole nascoste
editore: Mondadori
pagg. 246
€ 18