Articolo a cura di Metella Orazi.
James Welch, uno dei maggiori cantori di storie dei nativi americani, con L’ultimo giorno di Jim Loney, edito da Mattioli 1885, regala un racconto crudo che mette in chiaro già dal titolo che è meglio non aspettarsi il lieto fine.
L’ultimo giorno di Jim Loney
Jim Loney ha trentacinque anni e vive in una piccola città del Montana, Harlem, vicino alla riserva indiana. È un solitario e pur essendo ancora giovane conduce una esistenza schiva e priva di interazioni sociali, se si esclude lo starsene seduti al bancone del bar a bere.
Si sentiva la bocca secca e il vino non aveva un buon sapore. Era agitato. Era da un mese che pensava alla propria vita. Aveva cercato di ragionare su tutte le piccole cose che lo avevano portato a essere un uomo seduto a un tavolo a bere vino. Ma non riusciva a collegare i pezzi della propria esistenza, le diverse persone che vi erano entrate e uscite. A volte si sentiva come un uomo affetto da amnesia che cerca l’unico evento, l’unica persona o momento che possa riportare tutto indietro fino al punto in cui ha smarrito l’ordine della propria vita.
Jim è un “sangue misto”, di origine bianca per parte di padre e indiana di madre, ma questa doppia eredità non lo arricchisce, anzi, è per lui un macigno che lo schiaccia a terra e lo perseguita perché non sa come liberarsene.
Entrambi i genitori, lo hanno abbandonato, la madre fin da quando era piccolo e il padre qualche anno dopo. Solo la sorella maggiore Kate gli rimasta vicina per un po’, ma anche lei ora vive in un altro Stato dove ha una carriera impegnativa e di successo; anche se l’affetto esiste ancora tra loro è difficile esprimerlo a distanza.
Durante tutti gli anni delle superiori, Loney era stato quello intelligente, quello a cui tutti si rivolgevano per avere delle risposte, quello che viveva in quella pensione gestita da un predicatore. Che cosa era successo?
Qualcosa deve essere andato storto nella vita di Jim che, a differenza della sorella, è rimasto impantanato in un posto remoto a rimuginare sullo scopo da dare all’esistenza, a combattere con l’alcolismo e la solitudine.
Perfino l’amore di Rhea, un’insegnante originaria del Texas, non sembra aiutare Jim contro il processo di autodistruzione che ha messo in atto.
Durante il servizio militare gli era capitato che lo chiamassero Capo e lui era indiano solo per metà. Lo aveva sempre meravigliato essere considerato un indiano ogni volta che si allontanava dalla sua vita di tutti i giorni. Lui non si era mai sentito un indiano.
Lacerato tra ciò che poteva essere e che non è stato, alla ricerca delle sue radici Jim è bloccato in un tempo sospeso, in cui l’asprezza del paesaggio del Montana sembra riflettersi nel suo stato d’animo che di quei luoghi è il prodotto.
Welch attraverso Jim Loney dà voce a un intero popolo che non ha mai potuto raccontare la propria versione, in poche concise parole l’autore è capace di creare il paradigma di chi è alienato e senza un rifugio, dei disoccupati, degli alcolisti e di chi ha poche speranze di farcela.
L’ultimo giorno di Jim Loney narra in modo onesto della tragedia americana degli oppressi incapaci di comprendere il passato per riuscire ad andare avanti.
Con una prosa semplice ed essenziale, che non indugia mai in descrizioni superflue, l’esperienza di Jim si insinua sottopelle e ci contagia come un prurito che è sì fastidioso ma che provoca anche un sottile piacere quando si gratta.
Da leggere.
un libro per chi: ha già letto Camus o Faulkner e vuole aggiungere un piccolo capolavoro alla sua libreria
autore: James Welch
titolo: L’ultimo giorno di Jim Loney
traduzione: Nicola Manuppelli
editore: Mattioli 1885
pagg. 202
€ 18