Alina Bronsky ha un grande pregio: riesce a raccontarci con grande vividezza le relazioni tra persone che non si sopportano in quel modo contraddittorio, esagerato e sopra le righe che ha chi si vuole parecchio bene.
Dopo averci regalato Baba Dunja, un personaggio femminile davvero memorabile, con La treccia della nonna, ancora pubblicato da Keller, la scrittrice russa trapiantata a Berlino ci presenta un’altra donna non più giovanissima, segnata dal tempo e coriacea come una quercia millenaria.
La treccia della nonna
Max è solo un bambino quando arriva in Germania dalla Russia, seguendo la nonna Margarita e il nonno Čingiz.
In verità è stata lei – questa donna non più giovane ma nemmeno troppo vecchia, sicuramente scorbutica e saccente, fiera portatrice di lunga treccia rossa – a fare di tutto per arrivare fin là, ufficialmente spinta dalla convinzione che la vita nell’Est comunista fosse troppo dura da sopportare, soprattutto per il suo Maxuccio, da lei considerato fragile, incapace, malaticcio, debole, inutile.
Mi voltai, non volevo vedere né lei né le sue foto. Nel contempo, però, temevo che non avrebbe mai smesso di avere ragione. Aveva ragione anche quando sbagliava. Mi conosceva meglio di qualsiasi altra persona e sapeva cose di questo mondo che tutti gli altri ignoravano.
Max, in verità, è solo un bambino come tanti, anche se non ha ricordi di sua madre e di suo padre non ha mai sentito parlare.
Il ragazzino non è come la nonna lo descrive al mondo e non avrebbe certo bisogno di continuare a mangiare pappette d’avena, protetto da un’inutile cortina di attenzioni che altro non sono che continue privazioni e prevaricazioni frustranti, che giorno dopo giorno diventano una tenaglia capace di stritolare qualsiasi anelito di vita e libertà.
Pensavo sempre alle donne quando avevo l’impressione che il mio cuore fosse stretto in una morsa gelida.
Il nonno Čingiz, silenzioso e passivo, in tutto questo malessere casalingo ha ben pensato di innamorarsi della vicina di casa Nina, che “sembrava disegnata con una matita morbida“: una madre ancora giovane, una pianista che con la figlia Vera è arrivata nello stesso spoglio palazzo dove approdano tutti i rifugiati.
Margo, così presa dalla propria ruvidezza e dallo scontro continuo con questa nuova vita tedesca così distante da lei, sarà l’ultima ad accorgersi del tradimento, quando qualcosa di tanto piccolo quanto immenso arriverà a dare un nuovo senso alla loro famiglia.
A raccontarlo così, La treccia della nonna potrebbe sembrare un romanzo triste, duro e malinconico, ma l’intera storia è ammantata da un umorismo così sottile da sapersi appoggiare delicatamente anche sugli episodi più dolorosi, rivelandone il lato più luminoso.
Se inizialmente si fatica a provare empatia per questa nonna petulante e scontrosa, pian piano, scoprendo il suo passato di luci e ombre, non si può che accettarla e volerle comunque bene, così come fa il piccolo Max, voce narrante di disarmante sincerità.
Le parole mi scivolarono davanti e io non avevo alcuna intenzione di inseguirle. Ma poi invertirono la rotta, come il vento che a volte cambia direzione, e mi trapanarono il cervello.
Siamo di fronte e un bel romanzo di formazione in cui il vero protagonista è l’amore eccentrico e imperfetto di una famiglia allargata e caotica, unita soprattutto dalla necessità di non lasciarsi sopraffare dal peso del passato e dal timore verso il futuro.
un libro per chi: sguazza nelle storie di famiglie disfunzionali
autrice: Alina Bronsky
titolo: La treccia della nonna
traduzione: Scilla Forti
editore: Keller
pagg. 165
€ 14,50