È difficile credere che La strangera di Marta Aidala, pubblicato da Guanda, sia un esordio letterario, dato lo stile maturo e l’innegabile capacità narrativa dell’autrice.
Se si parla di montagna, dietro l’angolo fa sempre capolino il magico pensiero che tutto in alta quota sia salvifico e rigenerante, ma Aidala, attraverso la sua protagonista Beatrice, scava in profondità in questo equivoco in cui spesso incappa chi la montagna la conosce davvero poco.
La strangera
Il rifugio si trovava all’ingresso di un altopiano che apriva la vista su un anfiteatro di cime, le più alte di tutte la valle. Era ancora in ombra, ma il sole iniziava a filtrare dalla cresta est della Becca, tingendone il contorno di giallo. Nel giro di un’ora la luce avrebbe inondato la conca e sarebbe diventato una distesa di erba che brillava, costellata da piccoli fiori bianchi e viola. Dal terrazzo non se ne riusciva a vedere la fine; una macchia di larici copriva il punto esatto in cui il terreno pianeggiante cedeva il passo alla pendenza, che sarebbe terminata solo una volta giunti lassù.
Bea ha poco più di vent’anni.
A soli due esami dalla laurea, lascia improvvisamente Torino, dove vive con i genitori, per trasferirsi in un rifugio a 2000 metri, ai piedi della Becca, “una montagna semplice, priva di vezzi e velleità”.
Di fronte alla madre – personaggio appena accennato, che rimane sempre in ombra, come una sorta di petulante e noioso grillo parlante che si fa sentire solo nella testa della protagonista – che le chiede “perché?”, Bea nemmeno risponde.
Non è mai palese cosa l’abbia spinta verso questa scelta, se non una tenace inquietudine che si manifesta nel suo mantenersi distante dalle persone, nel suo essere taciturna e sempre sulla difensiva, nel suo battibeccare con il Barba, il gestore del rifugio, testa lucida e barba grigia, burbero e frettoloso nel rapporto con i suoi dipendenti e con i turisti, gli scalatori, persino con chi vigila sulla montagna e soccorre animali e persone.
Ripensai a me, raminga, a ciò che avevo fatto in passato. Sapevo ciò che avevo amato, ciò che avevo odiato e odiavo ancora, ma l’avevo vissuto con tutta l’intensità del mio corpo, facendomi scuotere sino alle viscere. Alla fine, ero giunta quassù. Non sapevo se fosse il mio posto, ma ero decisa a sgomitare per farmi spazio. Non riuscivo a comprendere i motivi, ma mai mi ero sentita così serena, senza fingere di essere ciò che non era.
Nonostante la grande fatica del lavoro, metodico, ripetitivo e noioso, Bea tra quei monti si avvicina sempre più a un equilibrio che per troppo tempo le è parso impossibile.
E si avvicina pure a Elbio, il giovane, introverso e taciturno pastore che accompagna e cura le vacche in alta quota, e che da Bea è subito attratto.
Tra un caffè e una grappa bevuti frettolosamente, Elbio e Bea si riconoscono come anime affini, viandanti nella geografia dei timidi, coloro a cui bastano uno sguardo e un minimo gesto per accedere a un’intimità profonda, quella che non ha bisogno di oceani di parole.
Bea e i suoi colleghi, sotto la severa guida del Barba, trascorrono un’estate sfiancante, ma i loro sforzi sono resi tollrabili dal cameratismo ridanciano che sempre s’instaura tra chi è costretto a vivere isolato, fianco a fianco, senza altro a cui pensare oltre al lavoro. Poi, quando la stanchezza diventa insopportabile, bastano una birra condivisa e uno sguardo alla Becca a far credere d’essere una famiglia.
Eppure si conoscono così poco tra loro, sanno quasi nulla l’uno dell’altro.
Bea osserva, annota mentalmente le superficiali confidenze, le parole buttate qua e là che prese così, al volo, non valgono nulla, ma che è certa nascondano intere vite lasciate altrove.
Quando arriva l’inverno, solo lei resta a lavorare al rifugio con il Barba, convinta che quello sia ormai il suo mondo, che il suo essere strangera, straniera ai monti, sia ormai un ricordo per tutti.
Qualcosa però la toccherà così nel profondo da turbare, ancora una volta, l’irrequietezza che le pareva d’aver domato.
La strangera è un romanzo che si muove tra le inquietudini di chi ancora non si riconosce in alcun posto del mondo.
Marta Aidala conosce il vero lessico della montagna, tanto da coglierne l’essenza più profonda e renderla sulla pagina con la dovuta lentezza, che mai diventa un peso per chi legge.
La morale della storia, se proprio vogliamo trovarne una, è che la montagna sa essere tanto accogliente quanto respingente, e ciò dipende soprattutto da chi la guarda e la vive, dagli stati d’animo del momento, da ciò che passa per la testa di chi le si avvicina, da quanto la si conosce davvero.
Può essere un rifugio ma anche una prigione, Aidala ci tiene a sottolinearlo, sfatando il mito, tanto di moda in questi anni, di chi abbandona la città e sale le alture trovando l’illuminazione e la vita vera.
Cè amore e rispetto per i monti in questo romanzo che rivela un finale inaspettato, forse non così necessario a ciò che è venuto prima, perché non c’è nulla di più vero del fatto che non è la meta ciò che importa, è sempre il viaggio fatto per raggiungerla.
Da leggere.
![](https://www.lalettricegeniale.it/wp/wp-content/uploads/marta-aidala-la-strangera.jpg)
un libro per chi: stressato dalla vita di città pensa spesso “mollo tutto e me vado a vivere tra i monti!”
autrice: Marta Aidala
titolo: La strangera
editore: Guanda
pagg. 330
€ 18