L’unica persona nera nella stanza di Nadeesha Uyangoda, pubblicato da 66thand2nd, è uno di quei rari libri spartiacque che segnano la vita di chi li legge: c’è un prima, in cui si credeva di sapere cose, di conoscersi profondamente, di avere la certezza che “a me questa cosa non succede”, e un dopo, in cui si prende atto che si viveva in un’illusione e si inizia a far germinare i tanti semi raccolti durante la lettura.
L’unica persona nera nella stanza
La giornalista e attivista italo-srilankese, nata in Sri Lanka e in Italia fin dall’infanzia, in questo saggio scorrevole, schietto ed estremamente intelligente, scrive di razza, identità, immigrazione.
Con una personalissima narrazione che non lesina su ricordi e vicende che l’hanno vista protagonista, Uyangoda citando numerosi fonti – dai fatti di cronaca agli studi accademici, dalle arti agli speech nazionali e internazionali – analizza cosa significhi, appunto, essere l’unica persona nera nella stanza.
La prima volta che misi un sari era un sari finto, di quelli cuciti tutti assieme, da indossare come un costume. Me lo aveva cucito mia madre, con una stoffa a fiori rosa, per la festa di fine estate del centro estivo. Le educatrici avevano suggerito che mi agghindassi così («Con un abito del suo paese») e che cantassi una canzone nella mia lingua. La buttarono lì, con la stessa logica con cui le maestre suggeriscono ai figli degli immigrati di fare la tesina sul proprio paese d’origine: quanti di noi ci sono passati? Io la tesina l’avevo fatta sullo Sri Lanka per due volte, alle elementari e alle medie, al liceo mi ero rifiutata.
Perché essere nero in Italia è ancora sinonimo dell’essere straniero, al di là del quotidiano scontro tra ius sanguinis e ius soli: qui si sfida chi legge a dichiarare – croce sul cuore, parola di lupetto – di non aver mai chiesto a una persona nera incontrata in Italia in una qualsiasi circostanza, l’invadente domanda “Da dove vieni?”, dando per scontato che il colore della pelle sia un indicatore certo del luogo di nascita, come se non fosse possibile per un italiano vero avere la pelle nera.
Da questo e da molti altri spunti, l’autrice parte per intavolare una proficua e aperta discussione su razzismo sistemico e razzismo inconsapevole, su colorismo e cittadinanza, senza mai mettersi in cattedra a giudicare ma con il solo e lodevole scopo di farci sedere alla sua tavola rotonda, di renderci partecipi di un flusso di riflessioni agili, in cui è un piacere inserirsi con la volontà di comprendere e, magari, cambiare prospettiva, linguaggio, pensiero.
Puntare il dito contro razzismo inconsapevole è come mettere una bacinella sotto a un soffitto che perde quando il tetto è già marcito. Con «male minore» non intendo «marginale», ma che non è quello originario. Il razzista inconsapevole è generalmente una persona che conduce una vita pressoché monocolore: i suoi amici sono bianchi, come i suoi colleghi, lo stesso si può dire della sua famiglia; raramente interagisce con persone di colore, e quando succede, lo fa a un livello molto superficiale. Il razzista inconsapevole non ha idea di cosa sia il razzismo. Perché è razzista, direte voi. Sì, sicuramente, ma lo è in una maniera molto simile al vostro amico di colore che dice che uscirebbe con una donna di origini africane solo se la pelle chiara. Penso che questo tipo di razzismo sia in qualche modo accostabile al problema del colorismo nelle comunità etniche: è interiorizzato, fatto a volte di azioni e di linguaggi involontari.
La fluidità della narrazione, sia essa di fatti di cronaca o di memorie personali, aggancia immediatamente le lettrici e i lettori, che non possono che annuire convinti o a volte arretrare come di fronte a una verità inammissibile (“Oddio, anche io che mi ritengo non razzista mi comporto così!”).
Perché i ragionamenti di Nadeesha Ugondoya, da qualsiasi punto li si guardi, non fanno mai una piega, sono talmente lineari e strutturati da essere sulla via per diventare dogmi, anche se non è certo questo lo scopo di questo libro così prezioso.
Quasi mai nei romanzi è specificata l’etnia o il colore della pelle dei soggetti: l’autore e il lettore vivono nella stessa stanza, la loro conversazione, come quella tra gli intellettuali bianchi con cui ho aperto questo capitolo, è una conversazione a porte chiuse in cui entrambi condividono una stessa prospettiva. L’autore bianco e realizza un prodotto a consumo esclusivo del lettore bianco, e il libro può certamente essere letto anche dal lettore nero, ma deve entrare in quella stanza e condividere la loro stessa prospettiva.
Non c’è saccenza in quanto racconta Nadeesha Uyangoda, così come non c’è rassegnazione.
L’unica persona nera nella stanza può e deve essere l’occasione per continuare a fomentare il dibattito sulla questione razziale, così necessario per arrivare, si spera in tempi brevi, a una vera soluzione.
un libro per chi: vuole mettersi in discussione sulla questione razziale
autrice: Nadeesha Uyangoda
titolo: L’unica persona nera nella stanza
editore: 66thand2nd
pagg. 173
€ 15