Con il romanzo Eravamo dei grandissimi il tedesco Clemens Meyer era riuscito a farci vivere i sogni rivolti ai miraggi dell’ovest di quattro giovani dell’est alle prese con la caduta del muro e le sue conseguenze.
Con la raccolta di racconti Il silenzio dei satelliti, lo scrittore contemporaneo che più di ogni altro ha saputo raccontare la transizione dei giovani verso l’apparente libertà dell’occidente scatta istantanee della vita quotidiana di chi, dopo la caduta, è rimasto fermo immobile, attaccato alle obsolete battaglie perse, e di chi, pur con fatica, ha accettato di rimettersi in gioco, raccogliendo i cocci – minuscoli e affilati – di ciò che è stato spezzato dal cambiamento.
Il silenzio dei satelliti
Non è sbagliato definire vinti i personaggi raccontati da Meyer nella Germania decadente di oggi, alle prese con crisi, povertà e immigrazione.
Un crocevia di solitudini raccontate con sguardo onesto ed empatico, tanto realistico quanto poetico: c’è il guardiano di un palazzone, l’oggetto 95, che si lascia andare a un tenero e sincero interesse per una giovane ospite del campo profughi confinante; ci sono due donne che diventano amiche la sera in un bar, raccontandosi ciò che rimane di una vita fatta di lavoro e ben poche altre soddisfazioni; c’è il proprietario di un chiosco che s’innamora di una fragile e infelice ragazza musulmana, che mai saprà di quel sentimento così difficile da ammettere.
C’è l’incontro di due uomini soli, affacciati sul Mar Baltico.
Il più giovane accoglie i ricordi del più anziano, facendoli propri e tramutandoli in sogni.
Anche quella notte la tranvia attraversò i miei sogni. La linea aerea era congelata, piccoli lampi elettrici crepitavano tra il cavo superiore e il pantografo sul tetto del vagone. Sulla vettura vuota erano in tre: Karli, lei e il vecchio. La cosa strana è che lui restava vecchio anche nei sogni. Sembrava un po’ più alto, un po’ più robusto, ma la faccia era comunque vecchia. Viaggiavano con il vagone estivo, quello aperto, e tra noi soffiava un vento gelido. Sì, perché adesso c’ero anch’io sulla tranvia mare, non la vedevo più dall’esterno come a volte si osserva e segue tutto nei sogni, quasi si fosse ubiqui. Ero salito a una delle fermate, segnalata da un cartello con l’orario delle corse piantato nella sabbia della spiaggia, e mi ero seduto in fondo al vagone a osservare gli altri tre. Lei all’inizio era dietro di lui e poi si spostava accanto al banco di guida, mentre il piccolo Karli correva per la vettura con l’uniforme troppo larga e le maniche rimboccate raccontando qualcosa, barzellette e battute di cui rideva lui per primo in continuazione. Sigarette e cioccolata. Mi faceva l’occhiolino da sotto la visiera blu del berretto, «biglietti, prego, controllo biglietti!», e ricominciava a correre per il vagone fingendo di non vederci per via del berretto e di andare a sbattere contro i sedili, proseguiva barcollando, lo sentivo ridere e ridere.
E ancora, sempre ai margini di una società che immaginiamo forte e invincibile, il rimpianto di un fantino che non ha mai potuto correre sul lago ghiacciato di St. Moritz e un ferroviere turbato dalla risata di un suicida.
Ogni racconto vede l’avvicinarsi di due anime grigie, intristite dalla nostalgia del passato, dalla monotonia del presente e dalla frustrazione di guardare a un futuro incerto, eppure ancora miracolosamente speranzose di trovare uno spiraglio di felicità, un barlume d’amore, una briciola di affettuosa solidarietà.
Ne è massimo esempio l’incontro tra un giovane sconvolto dalla violazione fraudolenta della propria zona di conforto e un’anziana signora solitaria, che attende il ritorno del nipote tanto amato.
«È questa l’ora di arrivare?» lo rimproverò, e di nuovo lui non seppe cosa rispondere,
Non le aveva ancora detto una parola, eppure lei se l’era preso lo stesso per mano tirandoselo fino in casa. Gli aveva preparato un caffè mentre lui era rimasto in corridoio, senza sapere bene che fare, ad ascoltare la voce roca che veniva dalla cucina.
«L’hai lasciata ad aspettare un bel pezzo, la tua povera nonna». Poi si sedettero al tavolo con le tazze fumanti in mano, e alla donna anziana si appannarono gli occhiali. Lei sorseggiava il caffè, lui si guardava intorno. I mobili erano vecchi, ma certo non antichi. C’era un grande armadio a tutta parete con bicchieri, statuine di porcellana e fotografie incorniciate dietro la vetrinetta. Un divano su cui erano posati dei cuscini rossi, con un tavolino davanti. Due poltrone. Da qualche parte ticchettava un orologio. Scorse la grossa pendola nell’angolo accanto alla porta. Più tardi, allo scoccare dell’ora piena, rintoccò il gong. A quanto pareva, la vecchia non dimenticava di caricarla. «Mi era rimasta solo la Volkssolidarität» disse la donna, «mi sei mancato tanto, Lukas».
Con una scrittura fluida, raffinata e profondamente espressiva, Clemens Meyer ci pone di fronte allo specchio della vita, lasciandoci ritrovare i nostri stessi timori e le nostre vaghe speranze.
Un libro che porge il fianco a riflessioni profonde e che, lasciatemelo dire con convinzione, è un vero piacere per il lettore in cerca di una prosa piena e coinvolgente.
un libro per chi: ha bisogno di storie che sembrano déjà vu
autore: Clemens Meyer
titolo: Il silenzio dei satelliti
traduzione: Roberta Gado e Riccardo Cravero
editore: Keller
pagg. 222
€ 16,50