Articolo a cura di Metella Orazi.
James McBride in Il diacono King Kong pubblicato da Fazi, fa rivivere la comunità di un sobborgo multietnico di Brooklyn, Causeway Houses, nell’anno 1969 e lo fa talmente bene che vorremmo continuare ad aggirarci da quelle parti anche a libro concluso.
Il diacono King Kong
Sportcoat è un diacono ed esercita le sue mansioni, qualsiasi esse siano, nella chiesa locale di Five Ends; per questo motivo e per la sua nota passione per il King Kong, la miscela alcolica che il suo amico Hot Sausages distilla nello scantinato, è conosciuto come il diacono King Kong.
A settantun anni, Sportcoat aveva contratto quasi tutte le malattie note al genere umano. Aveva la gotta. Le emorroidi. L’artrite reumatoide, che gli storpiava la schiena a un punto tale da farlo camminare come un gobbo nelle giornate nuvolose. Sul braccio sinistro aveva una cisti grossa come un limone, e all’inguine un’ernia grossa come un’arancia. Quando quest’ultima crebbe fino alle dimensioni di un pompelmo, i medici gli consigliarono caldamente un intervento chirurgico. Sportcoat li ignorò.
A quattordici anni Cuffy Jasper Lambkin, vero nome di Sportcoat, era già un alcolizzato nonché un’attrattiva irresistibile per i medici che a causa delle sue patologie dovevano intervenire; per dirne una, da bambino aveva troppi denti in bocca ed era stato costretto a farseli togliere.
Con la crescita aumentano per lui anche i disturbi e i motivi per una rapida dipartita: malattie del sangue, infezioni, embolie polmonari, per continuare con incidenti alle dita delle mani e dei piedi, interventi chirurgici per asportare qualcosa qui e là dal suo corpo.
Gli abitanti delle Causeway, dove chiunque aveva un motivo per essere un po’ bislacco, hanno da tempo profetizzato la sua morte, ma mai come nel giorno in cui Sportcoat si presenta davanti al giovanissimo spacciatore di zona Deems Clemens, con in tasca una vecchia Colt calibro 38 – che ad un certo punto tira fuori, punta e, davanti a una piccola folla, utilizza – sono certi che sia arrivato il suo momento.
Il diacono Cuffy Lamkin della chiesa battista di Five Ends diventò un morto che cammina in un nuvoloso pomeriggio di settembre 1969.
Nessuno sa spiegarsi il gesto di Sportcoat che sembra ubriaco e continua a battibeccare con il fantasma di sua moglie Hettie, morta annegata da quasi un anno. La moglie si è gettata nel fiume e ha trascinato con sé nell’oblio anche la cassetta delle offerte del club natalizio alla chiesa, cacciando così ancora più nei guai il marito, sospettato di essersi bevuto tutto.
McBride parte dal pasticcio che il vecchio diacono combina per estendere il racconto all’intera comunità eterogenea, della quale mette in risalto non la violenza che potrebbe caratterizzarla – essendo per lo più composta da spacciatori, trafficanti irlandesi, ubriaconi, mafiosi italiani, una costellazione di poveri e meschini – ma, contro ogni aspettativa, ne tratteggia con ironia e spesso con divertimento l’aspetto gioioso, paradossale e grottesco che li porta a dare il meglio e a cavarsela anche nelle situazioni peggiori.
Il diacono King Kong ha un ritmo trascinante e diverte scoprire i piccoli indizi misteriosi disseminati con delicatezza lungo la storia, gli avvenimenti a primo impatto strampalati (vedi per esempio lo spassoso episodio La marcia delle formiche), che acquistano sul finale un senso profondo che soddisfa e rasserena.
I personaggi che in altri contesti avrebbero esercitato solamente la violenza senza la minima speranza di cambiare, crescono affrontando le difficoltà e ne risultano in fine migliorati.
I lettori e le lettrici escono da questa storia con il sorriso e la consapevolezza di aver letto qualcosa di più di un libro divertente.
un libro per chi: vuole dilettarsi in leggerezza su temi tutt’altro che leggeri
autore: James McBride
titolo: Il diacono King Kong
traduzione: Silvia Castoldi
editore: Fazi
pagg. 455
€ 20