Articolo a cura di Paola Migliorino.
Una nota in coda a Bill – ultimo romanzo di Helen Humphreys, pubblicato da Playground – rivela che la storia narrata si ispira a un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1947 a Canwood, nel Saskatchewan: un delitto efferato e sconvolgente, che tuttavia nascondeva aspetti delicatissimi se non addirittura commoventi.
E sicuramente commovente si rivela la lettura di questa storia, raccontata con profonda sensibilità dall’autrice canadese.
Bill
Bill è un personaggio strano e solitario, a volte scontroso e persino selvaggio, che vive da emarginato in un piccolo paesino del Canada. Probabilmente è più corretto dire che vive quasi come un eremita, perché la sua è innanzitutto una scelta di isolamento, non un esilio imposto dalla società: Bill ha per casa una grotta ai piedi di una collina, in cui vive con i suoi due cani ai quali non ha dato un nome (in fondo a che serve?); si mantiene con qualche lavoretto saltuario da giardiniere e vendendo come portafortuna le zampe dei conigli che lui stesso cattura e le cui carcasse accumula in fondo alla grotta.
L’unico essere umano con il quale costruisce un rapporto di fiducia e affetto, è Leonard Flint, un bambino di circa dieci anni, da poco giunto nella cittadina, irrimediabilmente attratto dallo spirito libero, quasi animalesco, di Bill.
Ciò che attrae Leonard è forse proprio ciò che gli altri trovano strano in Bill: i suoi silenzi, la sua scelta di vivere libero dagli schemi e dalle regole, la sua semplicità:
Che c’è di sbagliato nel non andare a lavorare? Che c’è di male nello starsene sdraiato qui, sulla morbida pelliccia di coniglio, con i cani raggomitolati accanto a te, nella casa che hai costruito con le tue stesse mani? Perché sentirsi in colpa per il fatto di voler mantenere una certa distanza dalle persone?
Leonard vede in Bill l’amico che non è riuscito a trovare tra i suoi coetanei, che anzi lo bullizzano per il solo fatto di non essere nato lì.
Ma soprattutto, Leonard condivide l’approccio semplice e immediato di Bill con la natura, rappresentata con garbo e poesia, in particolare mentre ricorda un bosco o osserva la luna.
Non che la trovi bella anche, se mi piace il suo oscillare lattiginoso. È che ne avverto la pesantezza, come se fosse un dolore che d’un tratto è rimasto intrappolato nel mio sangue.
Questa amicizia istintiva e ricca si interrompe, però, bruscamente quando Bill commette un terribile crimine, che porterà Leonard a decidere di studiare psichiatria proprio per tentare di comprendere e di salvare chi compie simili gesti.
Dieci anni dopo, nel 1957, ritroviamo così Leonard, novello psichiatra, alle prese con il suo primo incarico in una strana clinica, in cui gli stessi medici sperimentano su sé stessi terapie alternative a base di LSD, per cercare di sondare i misteri dell’animo umano.
E che cos’è un’anima? Qualcosa a metà tra la natura essenziale di un individuo e i suoi desideri, una verità tangibile e un tendere verso qualcosa, tutto insieme. Come il movimento di un coniglio in fuga, che corre talmente veloce da non toccare neppure il terreno con le zampe.
Qui Leonard ritroverà Bill e riscoprirà quell’attrazione istintiva e animalesca verso quello strano uomo, oramai piegato dalla società. Pur non riconoscendo all’apparenza in Leonard il bambino di un tempo, Bill se ne prenderà nuovamente cura in modo commovente e delicato, fino alla nuova, irrimediabile tragedia.
C’è sempre un luogo fuori dalla storia, dove questa stessa storia viene raccontata. Non può essere narrata da dentro. Come potrebbe? Deve essersi conclusa prima che si possa raccontare. Ci devono essere un inizio, un centro e una fine, e il narratore deve conoscere tutte le parti. Fin dal principio, deve poter vedere la fine, come se stesse in cima a una collina decisamente alta e spingesse lo sguardo lontano. Ma capita che in una storia ci siano momenti che possono funzionare da finale, che lo sembrino. E i momenti in cui Bill mi ha lasciato dormire, e ha pronunciato quelle parole, “Bado io a te”, mi sono sembrati proprio questo, una conclusione: la giusta conclusione, almeno per me. Se la storia si fosse interrotta qui, sarebbe andato tutto bene. Avrebbe avuto un lieto fine…
L’epilogo della vicenda cambierà per sempre il destino dei due uomini e porterà Leonard a indagare su sé stesso, disseppellendo così ricordi rimossi e rancori mai sopiti, fino alla sorprendente rivelazione finale.
Mi manca Bill… E questa assenza è un dolore che si diffonde come un fischio nel mio corpo… Mi manca Bill, mi manca quel pezzo del mio passato in cui ci conoscevamo e ci appartenevamo. E mi manca il futuro che non abbiamo mai avuto. Mi manca la possibilità reale di un lieto fino. Mi manca l’invenzione di una macchina che trasformi un’azione sbagliata in pensiero, la rabbia in amore.
Romanzo di formazione ma anche di denuncia sociale, Bill è una lettura che non si dimentica facilmente, non solo per la toccante storia raccontata ma anche e soprattutto per lo straordinario linguaggio poetico di Humphreys.
un libro per chi: pensa che avere un rifugio sia una specie di felicità
autore: Helen Humphreys
titolo: Bill
traduzione: Chiara Brovelli
editore: Playground
pagg. 216
€ 17
Ciao Elena e ciao Paola.
Di questa scrittrice poetessa avevo amato molto “Cani selvaggi” e ho letto “Bill” divorandolo in un pomeriggio.
Abbiamo sempre bisogno di essere ascoltati e non lasciati soli, la bambina dentro di me ha urlato forte.
Grazie per l’amore che c’è in questo blog.
Cara Noemi, grazie a te per questo bellissimo commento!
“Cani selvaggi” è nella mia TBR da anni, prima o poi giuro che lo recupererò.
Io e Paola ti abbracciamo e abbracciamo la bambina che è dentro di te.
Mi è piaciuto molto. L’ho letto in un pomeriggio e penso sarebbe anche possible adattarlo per trasformarlo in una bella pièce teatrale.
Unico appunto: nella traduzione si parla di “ossa” di animali, invece che di “ossi”.
Anch’io ho trovato il libro molto bello (credo di averlo già detto!) e sicuramente sarebbe altrettanto bello l’adattamento teatrale.
Riguardo il plurale di “osso”, confesso di non essermene accorta, probabilmente perché ero convinta che i due plurali previsti nella nostra lingua fossero assolutamente equivalenti! E invece, grazie a te, ho riscoperto questa puntuale sfumatura. Grazie!
Credo comunque che possiamo perdonare Chiara Brovelli, che con la sua delicata traduzione, è riuscita a riprodurre tutta la poesia dell’autrice.