Non sono mai abbastanza le testimonianze sulla Shoah. Ognuna di esse contribuisce a costruire la Memoria collettiva, affinché il mondo intero non dimentichi i milioni di vittime dell’Olocausto.
Tra queste, quella di Élie Buzyn, ebreo polacco nato nel 1929 e deportato ad Auschwitz nel 1944, che oltre lo straziante racconto della quotidianità al campo, pone l’obiettivo sul dopo: come è stato possibile riprendersi e quanta forza è stata necessaria per ricominciare a vivere?
Avevo 15 anni, pubblicato in Italia da Frassinelli, è una potente dichiarazione d’attaccamento alla vita e un invito a fare delle proprie esperienze dolorose e negative le fondamenta di atti di gentilezza e altruismo.
Avevo 15 anni
So di essere soltanto una voce fra le tante, tutte con la stessa dignità e lo stesso valore di indiscutibile testimonianza storica che tocca l’umanità nella sua essenza.
È l’umiltà con cui si presenta il Dottor Buzyn a colpire il lettore. La sua testimonianza è una delle tante, ma come tutte è unica e fondamentale, perché ricorda chi non è sopravvissuto e ne tramanda nomi e gesta. Continua così a vivere il fratello Avram, nel 1940 freddato a colpi di pistola dai nazisti, durante lo sgombero degli ebrei dai quartieri residenziali di Łódź, affinché fosse d’esempio per tutti.
Quando mia madre ha avuto fra le mani la foto di Avram, il suo dolore è diventato ancora più intenso. Posta crudelmente di fronte all’assenza del figlio, e senza una tomba su cui recarsi, guardava la fotografia ogni giorno e piangeva continuamente. Poi, quando la foto ha in qualche modo finito per fare le veci di un sepolcro, è arrivato per lei qualcosa che assomigliava alla quiete.
Grazie al ricordo di Élie continuano a vivere la madre e il padre, mandati a morire nelle camere a gas non appena arrivati ad Auschwitz nel 1944. Un ricordo che allora divenne ancora di sopravvivenza per il quindicenne, che fece di tutto per mantenere la promessa di non morire, fatta alla madre anni prima.
Ad Auschwitz la morte era dappertutto, in dettagli che in tempi normali ci sarebbero apparsi insignificanti. Un pidocchio solitario poteva rappresentare una condanna a morte. In caso contrario, si subiva una disinfestazione totale, una verifica generale, perché i parassiti erano vettori di malattie ed epidemie. Così ogni sera ci si spidocchiava l’un l’altro. Era terribile.
Élie si finse più vecchio di un paio d’anni e resse ai colpi dei suoi aguzzini pur di dimostrarsi abile al lavoro e quindi meritevole di restare in vita. Sopravvisse anche a un’infezione, grazie alle caritatevoli cure di un medico tedesco, antinazista e Testimone di Geova.
Fu questo incontro determinante a gettare il seme delle future scelte del giovane, che a venticinque anni, sopravvissuto alla ferocia nazista e al duro lavoro in un kibbutz israeliano, decise di iniziare a studiare medicina.
La scelta della specializzazione ricadde su ortopedia, perché il ricordo dei propri piedi congelati durante la gelida marcia della morte da Auschwitz a Buchenwald e salvati solo grazie ai solidali consigli e cure dei compagni di sventura, fu lo sprone per dare un senso al proprio futuro.
Una rinascita che per lungo tempo negò il passato, perché per Élie Buzyn fu per anni impossibile ammettere l’orrore vissuto, tanto da arrivare a far rimuovere il numero tatuato sul braccio.
Fu solo dopo molto tempo e un’intera vita spesa a curare soprattutto coloro che i nazisti avevano perseguitato – Testimoni di Geova, malati psichiatrici, anziani e disabili – che Élie decise di raccontare la propria storia, diventando testimone della Shoah.
Avevo 15 anni è il racconto schietto di ciò che è stato, ma è soprattutto la storia di un ragazzino che diventa uomo e che si impegna per tutta la vita a fare ciò che più desidera, senza limiti e proibizioni.
Una testimonianza viva e presente, che non può che farci capire quanto siano preziose la libertà e la vita stessa.
un libro per chi: non vuole dimenticare
autore: Élie Buzyn
titolo: Avevo 15 anni
traduzione: Elena Loewenthal
editore: Frassinelli
pagg. 156
€ 17