Può un cadavere diventare un’icona pop?
Sì se quel corpo inerme è quello di Evelyn McHale, ventitrenne che nel 1947 si suicidò gettandosi dall’Empire State Building.
L’immagine della sua salma – perfetta, posata, carnale ma allo stesso tempo onirica – fu immortalata da un giovane fotografo presente al momento dello schianto e poi pubblicata sul settimanale LIFE.
Oggi è addirittura protagonista di uno dei libri italiani più interessanti di questi ultimi mesi, Non sarò mai la brava moglie di nessuno, scritto da Nadia Busato e pubblicato da SEM.
Non sarò mai la brava moglie di nessuno
Chi era Evelyn McHale?
Una giovane donna, contabile di professione, ex volontaria dell’esercito americano in tempo di guerra, fidanzata con un reduce poco più grande di lei.
A raccontarla banalmente così, Evelyn appare come una ragazza semplice, normale, perfetta per i tempi in cui viveva.
Ma cosa nascondeva l’apparenza? E chi può dire di conoscere veramente le persone che ha accanto?
Devono aver pensato questo Helen, la sorella di Evelyn, e Berry, il suo fidanzato, sopraffatti dal dolore una volta informati del suo suicidio.
Devono aver pensato: come abbiamo potuto non accorgercene?
Nadia Busato, dopo anni di ricerche e riflessioni, ha ricostruito e romanzato i punti di vista non solo di chi aveva Evelyn nel cuore, ma anche di chi, vedendo la sua salma, ha dovuto fare i conti con la propria coscienza e di chi con quel grattacielo simbolo di New York ha avuto un legame altrettanto stretto.
Non aspettatevi, quindi, un accurato resoconto della vita e della morte della contabile americana: di lei alla fine sapremo solo che era una ribelle, una ragazza ferita da traumi infantili, un’anima scalfita dagli echi della guerra.
Ed è tutto ciò che ci serve per cercare di comprendere il suo gesto mortale.
Evelyn era figlia di una donna insoddisfatta, probabilmente depressa, infelice nel matrimonio e nel ruolo di madre, tanto da abbandonare la famiglia quando la piccola di casa aveva poco più di sei anni.
Tu non ci sei mai, Vincent. Non vedi quello che succede. Tu vai al cinema, passeggi per il parco, per strada, leggi sconosciuti che ti riferiscono dettagli da fronti di guerra esotici e ti sembra di avere un cuore americano. Torni a casa e ti sembra di avere a cuore l’America. E anche se è vero che tu non puoi vedere troppo, di certo non vuoi farlo. Io invece ti vedo. E meno c’è da vedere in te, più ti osservo intensamente. È questo il senso: io lo vedo, quello che c’è, che è reale, che esiste davvero. E a differenza tua, so che sto guardando, sento il tempo che passa. Stare qui, così, in questa casa. Tu non sai. Ma io registro ogni movimento, anche il più piccolo. E sono sensibile alle cose che hanno un senso o che non ce l’hanno più che, l’hanno perso.
Difficile dire se Evelyn portasse in sé il triste DNA materno o se fosse stato il trauma dell’abbandono a lasciarla così ferita da condizionare tutta la sua breve vita.
I gesti di ribellione, la rabbia, le discussioni con la famiglia, nel ritratto che ne fa l’autrice intravediamo in Evelyn un dolore insanabile, una propensione all’apatia e all’insoddisfazione che probabilmente la portarono verso la fine.
La vita dovrebbe rispettare il suo arco verso la morte. Una curvatura dolce, morbida, fatta soprattutto di compromessi e graduale accumulo di bei ricordi e di emozioni positive. Bisogna lasciare il tempo alle sorprese, alla crescita e anche avere la pazienza di declinare con dolcezza, rallentando. Non si può mettere fine alla vita così, di netto.
È nelle sagge parole che la Busato fa pronunciare al poliziotto John Morrissey, il primo a giungere sul luogo dello schianto, che la morte di Evelyn diventa reale e vicina anche per noi lettori, che fino a quel momento ne abbiamo solo intravisto l’immagine sulla quarta di copertina del libro.
I morti sono tutti uguali. Ma i vivi si ostinano a non capirlo: li vogliono diversi, gli vogliono dare un nome, come se a chiamarli quelli si potessero di nuovo rialzare.
L’incapacità di Evelyn di amare e di amarsi è tale da rendere difficile, se non impossibile, provare compassione nei suoi confronti; fin dalle prime pagine ci si trova davanti a muro alto e invalicabile, costruito con i mattoni del disagio e della rabbia.
Nel tentativo di essere libera, indipendente, distante dal ben pensare comune degli anni in cui viveva, Evelyn si trincerò in una roccaforte d’indisponenza e irritazione.
Evelyn perse un tempo, poi due. Poi fermò i piedi a terra. Rimase con la testa appoggiata sulla spalla di Barry, senza guardarlo. Nessuno fece caso a loro.
Io non avrò figli.
…
Non li farò per darteli, non li farò solo perché sono una donna.
Sbagliandosi Berry pensò che sarebbe bastato opporre la dolcezza e la comprensione alla durezza delle parole di Evelyn. Così provò a dire forse per far suonare meno duro il suo mai.
Terminata la lettura sono rimasta con un grande interrogativo: se Evelyn avesse vissuto oggi, si sarebbe suicidata?
In un mondo meno convenzionale, avrebbe trovato una strada diversa?
Con una scrittura densa e incalzante, Nadia Busato ci racconta uno stralcio di storia della società contemporanea americana, usando il suicidio di Evelyn McHale come spunto per portarci in un’epoca non lontana, in cui le donne, per trovare la felicità, dovevano essere brave mogli e buone madri.
Non sarò mai la brava moglie di nessuno è una biografia al confine tra verità e finzione, narrata sapientemente dalla scrittrice bresciana con una voce letteraria potente e sincera, che spero di rileggere a breve in altre pagine.
un libro per chi: ama le narrazioni insolite e non superficiali
autore: Nadia Busato
titolo: Non sarò mai la brava moglie di nessuno
editore: SEM
pagg. 255
€ 16