Daniele Mencarelli è certamente uno di quei pochi autori dotati di sensibilità tale da poter scrivere di qualsiasi argomento, senza risultare lezioso, pesante, poco credibile.
Fame d’aria è l’ennesima prova del talento dello scrittore e poeta romano, che stavolta ci racconta la straziante storia di un padre e di un figlio.
Fame d’aria
I genitori dei figli sani non sanno niente.
Pietro ha cinquant’anni e viaggia a bordo di una scassatissima vecchia Golf verso la Puglia, dove lo aspetta la moglie Bianca, con cui celebrerà l’anniversario di matrimonio.
Al suo fianco c’è Jacopo, suo figlio.
Il ragazzo ha diciotto anni e non è di alcuna compagnia per il padre. Jacopo non parla, non interagisce, non ride, non fa niente che per Pietro possa essere considerato piacevole.
Non occorre essere grandi fisionomisti. Il ragazzo ha il viso di sua madre, di Bianca. Ha la delicatezza dei suoi lineamenti, la stessa carnagione di latte.
Soltanto, lui è come vuoto.
Un corpo vuoto, dondolante.
Jacopo «è autistico, a basso funzionamento, bassissimo», così ripete come un disco rotto Pietro.
Lo dice ormai meccanicamente, senza alcun trasporto, come una formula imparata a memoria per un esame da superare a ogni costo.
Ma a Pietro non importa più nulla dell’opinione della gente che incontra.
Non gli importa di Oliviero, settantenne meccanico che lo soccorre quando la Golf li molla in mezzo alla strada. Non gli importa di Agata, la barista che lo accoglie nella sua ex pensione, offrendogli vitto e alloggio sulla fiducia.
Pietro con sé non ha denaro. Dice di avere un problema con la banca e l’azienda per cui lavora, che non riescono a sincronizzarsi quando si tratta del suo stipendio. A Oliviero e ad Agata promette che al più presto, nel giro di un paio di giorni, il problema si risolverà come sempre e potrà pagarli.
Così padre e figlio devono restare per un paio di giorni a Sant’Anna del Sannio, uno di quei piccoli borghi ormai svuotati, dove i pochi paesani si conoscono tutti.
Lì Pietro conosce anche Gaia, che aiuta Agata a gestire il bar/ristorante e che riesce, con sensibilità e pazienza, a scalfire un poco l’armatura di cinismo e rabbia che l’uomo indossa.
Perché le formule di rito di Pietro, le sue poche parole, il suo essere sfuggente da qualsiasi approccio personale, nascondono dei sentimenti inaccettabili per la società.
Pietro non ama più suo figlio. Il dolore si è trasformato in odio e poi in rabbia, così Jacopo è diventato lo Scrondo, un essere ripugnante che è costretto a nutrire, lavare, gestire.
In quel momento, anche il suo dolore, quello che lo accompagnava dalla prima volta in cui gli comunicarono che il figlio era malato, assunse altra forma.
Da dolore a repulsione.
A odio.
Mencarelli squarcia il velo dell’ipocrisia e non nasconde nulla dei pensieri di un padre sfinito dalla disabilità del figlio e logorato dalla solitudine imposta dalla società e dalla politica, che evidentemente non fanno abbastanza per supportare le famiglie in difficoltà economica ed emotiva.
La sincerità disarmante e disturbante di Pietro sbeffeggia il “non si dice” e fa a pezzi tutti i romantici cliché sulla disabilità che portano tante persone a definire, sull’onda di una commozione sincera ma del tutto ignorante, “angeli” o “doni di Dio” tutti gli Jacopo che incontrano.
Fame d’aria è un romanzo fulmineo e doloroso, che fa quello che la letteratura dovrebbe, ovvero spargere semi per contribuire a far germogliare una discussione in primis con noi stessi, dandoci la possibilità di domandarci cosa faremmo al posto del protagonista e allenando quindi quello che davvero manca alla società odierna: l’empatia.
un libro per chi: non teme gli schiaffi che la letteratura a volte può dare
autore: Daniele Mencarelli
titolo: Fame d’aria
editore: Mondadori
pagg. 180
€ 19